Dopo aver regalato agli occhi colori e profumi speziati, guardando il film “Lion: la strada verso casa”, ho ceduto al mio feticismo per la carta stampata, e ho letto il romanzo da cui è tratto il film, immediatamente, la sera stessa. Per me le parole, sono più evocative di qualsiasi immagine, mi si annidano dentro, cercando il loro posto, per svelarmi realtà nuove e spesso inaspettate. La storia è forte, e raccontata dallo stesso Saroo Brierley in prima persona. Lo stile asciutto, secco, con cui srotola la sua vita, commuove ed emoziona, e, laddove la pellicola si è, necessariamente, affidata a musica e atmosfere visive, le peripezie di Saroo, si rivelano emotivamente forti, attraverso un racconto che nella sua semplicità, acquista potenza evocativa. Quello che nel film viene suggerito nel libro si manifesta più chiaramente, si sente il legame forte che Saroo ha con la sua famiglia, e vi sono numerosi accenni alle dinamiche sociali con cui si è confrontato nel corso degli anni. L’ ho letto in una notte, sacrificando il sonno alle pagine, e una volta finito mi son trovata più serena. Da qualche tempo, quando incontro storie di adozione, di famiglie naturali trovate o solo cercate, non mi identifico più con i figli, col loro fardello di domande, ma molto più spesso con le madri e i padri, tutti. È una sensazione straniante, come se, ad un tratto, si fosse spostata l’inquadratura. C’è stato un tempo, in cui il dolore per l’ abbandono quasi mi ha inghiottita, la sensazione di essere stata rifiutata mi provocava una mancanza fisica, un’ assenza di equilibrio, di punti fissi, e mi trovavo smarrita, in un gorgo di domande mute. Poi, quella fragilità l’ ho presa per mano, assieme abbiamo attraversato il grigio e siamo tornate,profondamente mutate nell’ essenza, poiché non sentivo più la necessità di negare la debolezza, ma potevo portarla, splendente, al mio fianco. Adesso, quando penso ai figli lasciati, persi, abbandonati, e altrove invece cercati e voluti, mi si spezza il cuore a pensarli smarriti, senza neanche un Peter Pan a regalare isole fantastiche, ma non mi immedesimo in loro; piuttosto sento, fortissimo, la sofferenza di chi, per qualsiasi motivo, non li ha cresciuti, non li ha sgridati per i capricci e non ha coccolato lacrime e risate. Non è una giustificazione, oggettivamente riesco ad immaginare svariate motivazioni per cui un bimbo possa essere abbandonato, e poche sono edificanti o scusabili, ma, quando lascio che sia l’empatia a guidarmi, mi accorgo che la rabbia è scivolata via, cedendo il posto alla comprensione. Ho scelto che il rancore non mi serve, non cambia gli avvenimenti, e che, invece, posso decidere che sguardo posare su di essi, e voglio che siano occhi comprensivi, ché la fragilità umana si manifesta negli aspetti più variegati, e può essere più vicina a noi di quanto crediamo. In fondo, è fortuna, e non merito, essere cresciuta nella piccola parte di mondo benestante, e ho imparato che la contingenza può trasformare le vite, talvolta anche a dispetto dei sentimenti. E, soprattutto, che le vie traverse, regalano esiti inaspettati, e spesso sono molto più interessanti, da vivere.