“Mamma, quando eri piccola, piccolissima, e stavi in India con i nonni Bobi, io e papà  venivamo lì,  con l’ aereo. E dopo, combattevano i coccodrilli, scacciavamo i leoni col bastone in alto, facevamo scappare i lupi. E dopo, venivamo a salutarti. E a prenderti, per venire via con noi. Sei felice mamma, che venivamo a prenderti?”. Trovo affascinante che nella sua immaginazione, metta insieme tutte le persone amate, incurante di spazio, tempo e luogo, nella sua avventura è  tutto plausibile. Ed io mi cullo e un po’ mi commuovo, nella sua versione fantasiosa eppure così vera, che mi cura l’ anima. Ha iniziato il suo papà  a raccontargli la mia storia, come una fiaba, la sera, ed io continuo, ogni tanto aggiungendo qualcosa, cercando sempre di accordarmi a come lo sento, a volte curioso, e allora trovano spazio colori e profumi dai nomi nuovi,  e, quando serve, ho imparato a fermarmi una parola prima.  Perché  c’ è  un tempo anche per le parole che un bimbo di pochi anni può  ascoltare. La linea che cerco di seguire è  di raccontargli sempre la verità,  ma nel momento in cui mi pare che possa averne una visione di insieme.  Perciò  ancora mamma ” era sola soletta” ma non “abbandonata” , per questo ci sarà  spazio più  avanti, quando si potranno legare più  emozioni ed articolarle tra loro, la tristezza o la malinconia va non dette ma senza l’ angoscia, che paralizza soltanto. Mi accade, ascoltando qualche giovane coppia di genitori  adottivi, di intravedere, tra le righe di una reale consapevolezza di quanto sia importante raccontare la verità  sul vissuto ai propri figli,  un’ urgenza quasi ansiosa nel farlo. Come se, fosse una pratica da adempiere e poi archiviare. Sono certa sia solo una nota in sottofondo, ma è  importante saperlo, la storia dei figli, anche e soprattutto quella parte in cui i genitori adottivi non sono presenti, sarà  compagna di viaggio per tutta la vita; in tempi e modi diversi, salterà  fuori, talvolta quasi prevedibile, in concomitanza con qualche ricorrenza importante o evento particolare, più  spesso, schizzerà fuori nelle crepe del tran tran quotidiano, pretendendo attenzione ed energia. E dunque? Non c’ è  un modo per sapere quando e come affrontare l’ argomento? sollecitare un silenzio o arginare racconti che paiono discordanti o proprio inventati? No, non esiste una regola che valga per tutti, un tempo stabilito. E non ci sono storie non vere, ma piuttosto racconti che si sono aggrappati a ricostruzioni che potessero lenire ferite, e che, comunque portano in se il seme di una realtà da conoscere; i ricordi a volte , hanno necessità  di sicurezza per srotolarsi ed essere dipanati. E non resta altro che attendere, le parole arrivano sempre, quando servono, e sanno  costruire ponti.  Accogliere anche le proprie paure, che fanno parte del gioco, e condividerle se si presentano le condizioni, guardarle in faccia, le rende comprensibili, farlo assieme, genitori e figli,  le fa sciogliere. Prendersi cura della propria storia, è un viaggio che ogni figlio compie, ed è un percorso a tappe,con battute d’arresto e rincorse, ma la consapevolezza di avere una stazione sicura a cui tornare e da cui ripartire con nuove energie é  un regalo non scontato. Noi lo sappiamo.

2 pensieri riguardo “Raccontare con  cura.

  1. Concordo con te sul fatto che, nel raccontare una storia così delicata ed al contempo spinosa, certe parole vadano modificate a seconda dell’età del bambino affinché il carico non sia troppo gravoso. Ecco allora che, nel mio caso, l’urgenza di narrarle quella parte del suo vissuto, nasce dal desiderio di tutelarla da un ennesimo “tradimento”: quello di non averle detto da subito quanto importante sia per noi la sua vita nella sua interezza. Raccontarle di sè, prima di noi, significa prometterle che non esiste un tempo in cui lei non sia stata presente nei nostri cuori e che mai esisterà. Capisco dunque la prospettiva di tuo figlio che ribalta la logica per riconnettere tutti sotto lo stesso tetto. Anch’io come lui amo la fantasia, ed è proprio lei a farmi da ponte con quella realtà della quale, più avanti, saprò di dover parlare con termini più appropriati.

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  2. Grazie, Devi, per questo post. Sono mamma di un bambino adottato all’eta di due anni dalla Cina. Da quasi subito abbiamo inserito i “genitori della Cina” (cosi’ li chiamiamo) nella nostra narrativa. Mi sono pero’ accorta che io avrei la tendenza ad edulcorare il racconto, come per ripararlo, come per giustificare quel papa’ e quella mamma quando la verità e’ che non ho elementi per farlo. Allora faccio le prove: quando sono in bici, o quando lo guardo dormire e lui non può sentirmi, pratico il discorso e cerco di restare fedele alla verità asciutta, ovviamente, come dici tu, misurando le parole in relazione all’eta’. Ci vuole pratica!

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