Ogni tanto, ho paura. Come quando Elia mi chiede “Perché, tu mamma, eri da sola da piccina? Eri marachella? Ti avevano messo a pensare un pochino? Ma poi, ti davano grandi abbracci per fare pace? No?”. Guardo il suo faccino, più  curioso che serio, fiducioso che ci sia una spiegazione, che la sua mamma saprà  dargliela. E annaspo, metto in fila le parole che mi son ripetuta tante volte, da quando è  nato mi preparo alle sue domande. Mi appaiono ora così  vuote le mie possibili risposte. Solo una cosa mi è  chiara, dopo molto tempo: non è  colpa dei bambini, non era colpa mia. E questo voglio che lo sappia, perché  è  un bambino anche lui, e deve sentirsi al sicuro dal senso di responsabilità  distorto che mi ha fatto compagnia, per un bel pezzo di vita. Vorrei proteggerlo dall’ idea che i bambini possono rimanere soli, e per me, per dirlo a lui, poco importa il motivo; so che il pensiero che, da qualche parte, i bimbi possono rimanere senza mamma e papà,  per lui, come per ogni bimbo, è  destabilizzante.  Non voglio buttargli addosso il peso della mia storia, le mie ombre. Forse è  la cosa più  difficile, non tanto raccontare la verità,  quanto metterla in prospettiva,  darle un senso, non nasconderne la tristezza, ma non lasciare che sia spaventosa. Ed è  tanto più  difficile, quanto più se ne conoscono i buchi neri, e il pensiero strisciante, che proprio ora, che tutto appare così  allegro, caotico e perfetto,  accada qualcosa a riportarmi coi piedi per terra. Conosco bene la sensazione di instabilità,  per anni l’ ho combattuta, ferocemente ho cercato di prevedere, controllare, ogni imprevisto creava una crepa. Eppure, nonostante i miei sforzi, qualcosa gli ho trasmesso, io che amo di lui, ogni parte che non mi somiglia. Una, che mi stupisce sempre, è  che nel sonno, socchiude gli occhi, come a controllare che tutto sia come l’ha lasciato, e mi intenerisce riconoscergli il mio stesso timore di svegliarsi solo, e in un altro luogo. “Dimmelo sempre se vai via da me, mamma, così  so che torni”; l’ ho sempre fatto, a costo di svegliarlo e di qualche lacrima da distacco, se devo uscire lo saluto e gli dico che poi ci racconteremo cosa abbiamo fatto. E  non è,  solo, per i libri di pedagogia che suggeriscono di agire così, ma perché  conosco la sensazione di allarme nel trovarmi sola senza avvertimento, all’ improvviso. Per questo cerco parole serene per lui, perché  in qualche modo ha sentito le mie paure, e allora, non posso nasconderle, insieme le guarderemo, le mie e le sue, contando sempre su un compagno di strada, il suo papà  che sa essere accanto a noi, con allegria e amore, portandomi un po’ di leggerezza. Guardo il suo visetto,  aspetta un risposta. “Topolino, ero sola, perché  sai, l’ amore si insegna, e se nessuno ti ha insegnato a coccolare un bambino, anche se vorresti tanto, non sai come fare. Però  tute le mamme in fondo, lo sanno, che i bimbi hanno bisogno di coccole, e fanno in modo che anche il loro bambino abbia molte coccole e amore, anche se sarà  da un’ altra mamma e un’ altro papà. Così  la mia mamma indiana ha pensato che per me ci volesse qualcuno che sapeva fare le coccole, e così sono venuta dai nonni.”. Continua a guardarmi, poi, con fare pensoso “Infatti mamma, i miei nonni Bobi, sono bravi a fare le coccole.  Anche i dolcetti. Però  mamma, non sei venuta tu, ti ricordi? Sono io venuto a prenderti, è  così  la storia. Adesso vado a fare il mio lavoro dei disegni. Tu fai le tue cose, mamma, poi me le racconti “. È non sa, che davvero mi ha presa, portandomi fuori da me, insegnandomi una felicità  concreta, che mi commuove quando la riconosco. Grazie a lui, accade sempre più  spesso. 

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