È da quando sono piccola, che amo le storie. Quelle lette nei libri, che mi regalavano la certezza di una felicità reale, ascoltate di nascosto nelle chiacchiere in giro, raccontate. Ed una in particolare, mi accompagna da sempre. Quella nata da colori sgargianti e profumi intensi, quasi nauseanti, e un sole torrido, che scotta la pianta dei piedi. La mia. È iniziata fantasticando su chi potessero essere i miei genitori indiani, e, come molti bimbi, quando venivo sgridata, sognavo di qualche padre maharaja e madre principessa, che alla scoperta delle angherie subite dalla loro perduta piccina, accorressero a fare giustizia. Fantasie di bambina. Tra l’ altro, già allora, non vedevo alcuna contraddizione, tra il voler questi genitori principeschi e il tenermi stretti i miei genitori. Immaginavo una possibile convivenza di affetti, dove nessuno avrebbe tolto niente, mi sembrava così lineare, il mio affetto per tutti. Col tempo invece, questa certezza si è scontrata contro la paura, mia e di altri, paure non dette ma che leggevo, nei loro occhi, presi alla sprovvista dal mia necessità di sapere. La fiaba non esisteva più, avevo ormai troppa consapevolezza, per sapere che non c’ erano stati principi e principesse nel mio passato, ma molto dolore, inferto e subito, e il peso di un abbandono, a cui credevo possibile trovare un colpevole. Non riuscendo a trovarne uno, pensai di esserlo io, per molto tempo. Servì un viaggio in India, per iniziare a scrivere la mia storia con occhi nuovi. Indispensabile, anni dopo, un bimbo nella pancia, e poi tra le braccia, per trovare incastri nuovi e una visione d’ insieme. Nel mezzo molti libri, studio, persone. Adesso tengo la mia storia, quella mi racconto nel tempo, come una compagna di viaggio preziosa, che muta al cambiare del mio sentire, ma mantiene alcune certezze, a cui torno quando mi sento persa.
Da qui, e dal mio amore per fiabe e miti, è nata l’ idea dei laboratori di scrittura in ambito adottivo. Perché, se le vite di tutti, a me paiono storie da scrivere, certo quelle dei figli adottati, sono sempre emozionanti da raccontare, e spesso rocambolesche. La fiaba, con la sua struttura al tempo stesso ben definita, con elementi che ritornano, ma con maglie larghe in cui possano trovare spazio innumerevoli sfumature, mi è parsa un buon mezzo, per avvicinarsi al proprio vissuto, con una sorta di rete di protezione. È provare l’opportunità di raccontare alle proprie paure, incertezze o curiosità di bambini, una storia che non nasconde, ma elabora anche i passaggi dolorosi o sconosciuti. Nelle storie di adozione, ci sono vuoti di informazioni, notizie vaghe o invece dettagliati ricordi di un’altra vita, sia essa di mancanze o serenità perdute, tutte componenti che meritano ascolto, e spazio dentro ciascuno. Trovo emozionante provare a costruire la propria storia, regalandosi il tempo di maneggiarla, con la cura dovuta, e la fantasia per farla volare alta, slegata dalla sola verità di informazione, una storia leggera, che suoni familiare a sé stessi, che tenga in sé ogni parte di noi. Raccontarsi per riappropriarsi di tutti i pezzi, provare a ricomporli, con carta e penna, le dita dirette interpreti dei pensieri, tenendo traccia di tutto ciò che si scrive, per poterci tornare, per trasformare o magari per confermare la propria storia. una narrazione che sia strumento, da utilizzare liberamente e declinata nella forma che più ci è vicina e ci risuona dentro.
Da un po’ di tempo, racconto al piccolo Elia la mia storia, a lui piace molto, e ancor di più gli piace raccontarmela; così mi consegna una nuova fiaba tutta per me, in cui io sono piccola e sola, nella Lalindia, e lui col papà, viene a prendermi, cavalcando un elefante e sconfiggendo leoni, tigri e coccodrilli. Alla fine, mi chiede sempre “sei felice che ti ho portato qui, da Lalindia?”. Ed io sempre rispondo “molto felice, per fortuna che sei arrivato tu a salvarmi”, ancora non sa quanto sia vero, come tutti i bimbi, agisce, prima ancora di sapere, o forse sapendolo, così in profondità da non aver necessità di spiegarlo.