In ambito adottivo vengono utilizzate spesso, ma sono due definizioni che trovo, da sempre, non solo stucchevoli nei toni, ma anche e soprattutto portatrici di concetti tronchi e deprivati di valore.
Capisco che possano apparire un modo semplice per dare nome a sentimenti complessi. Ma la complessità non deve spaventare, ma aprire porte nuove e vie più interessanti.
Utilizzare questi due termini non rende giustizia a nessuna delle due figure, di fatto rendendole manche voli entrambe di aspetti fondamentali.
Relegare l’una a solo corpo e magari istinto, togliendo tutto ciò che è sentimento ed emozione e dall’altra parte privare la cosiddetta “mamma di cuore” di una corporeità che pur non essendo legata alla gravidanza fisica è però un tassello importante del rapporto di intimità profonda che si costruisce col proprio figlio adottivo, sminuisce tutte e restringe lo sguardo, rendendolo miope e segmentario.
È ormai risaputo, che per quanto breve possa essere il periodo, il legame tra madre e figlio (ma anche i padri dovrebbero o potrebbero essere inclusi, anche se con modalità differenti) inizia già dalla gravidanza e si accresce e intensifica nei vari mesi, mesi in cui una donna trasmette visceralmente alla vita che le sta crescendo dentro tutta la gamma di emozioni e sentimenti, pensieri che si possono immaginare. E quel “di pancia” che forse si può legare all’istinto ma non a tutta la complessità che la maternità porta con sé ( comprendendo anche tutta l’ambivalenza, la difficoltà e la fatica di chi poi, si trovi per i più svariati motivi, a non crescere il proprio figlio/a) lo trovo una mancanza di riconoscimento, dell’importantanza di quel legame antico.
Allo stesso modo, quanto mi suona sminuente la definizione “di cuore”, come se il rapporto tra una mamma (ma ribadisco anche un papà) e suo figlio/a divenuti tali per adozione, sia privo di quelle sensazioni tattili, fisiche e concrete, che invece sono importanti per costruire insieme la propria storia. I gesti pratici, di cura, accudimento, affetto, fanno parte anche di questo legame, che penso rischioso declinare solo mentale o sentimentale.
Inoltre, fermarsi a queste due definizioni, un pò macchiettistiche, potrebbe far pensare ad una divisione, altrettanto forzata, delle “aree di competenza” a cui volgere (anche solo) il pensiero in caso di necessità, ovvero, tutto ciò che attiene all’identità corporea e fisica , rimandarlo in automatico e qualcuno che è lontano nel tempo e/ o nello spazio (a prescindere dalle motivazioni per cui lo è) e dall’altra parte, ricondurre tutto ciò che attiene all’emozione e al sentimento, a chi è presente ma non esaurisce in sé tutto quanto.
Appare chiaro che, in ogni caso, ci si troverebbe con delle mancanze da non poter colmare, alimentate da questa dualità di visione un po’ miope.
Siamo, in quanto esseri umani, un’unione indissolubile di mente e corpo (semplificando) ed è importante ricordare che ogni relazione profonda che intessiamo, non può prescindere da una delle due componenti, a rischio di perdere una parte fondante di sé.
Perciò ci sono madri che hanno dato la vita, con tutto ciò che questo implica, a livello fisico ed emotivo, con tutto ciò che avranno trasmesso ai propri figli (e, a rischio di ripetermi, senza cercare ed il votazioni irrealistiche, comprendo sensazioni e gesti sia positivi che negativi) e ci sono madri che poi questi figli/ e li crescono e li amano, costruendo con loro un rapporto altrettanto fondato su mente e corpo.
Come dicevo all’inizio, sembra più semplice la dicotomia “di pancia ” vs “di cuore”, al contrario è semplicistica, ma la vita e le relazioni che la abitano, per fortuna, sfuggono alla banalizzazione e necessitano invece di sguardo articolato e complesso, che cerchi almeno di avvicinarsi, quanto più possibile, alle sfumature variegate di cui sono composti.