A inizio estate ho partecipato alla presentazione di un nuovo spazio in città, spazio dedicato alle famiglie e a tutte le tematiche che ci ruotano intorno, tra le tante presenti anche adozione e affido oltre a bullismo, razzismo e discriminazioni varie.
La prima cosa che saltava agli occhi è stata la modalità con cui sono state presentate le storie che venivano portate al pubblico, anzi prima ancora, la scelta di portare in un’occasione così formale delle storie sicuramente molto emozionanti e potenti ad un pubblico variegato e quindi anche probabilmente, seppur volenteroso, non sempre pronto ad accogliere con la modalità migliore questi racconti.
Infatti sono stati proposti due racconti di vita chiamati ovviamente “testimonianze” con tutto ciò che, come spesso ho scritto, questo termine si porta dietro e che in questo caso era effettivamente voluto e preciso nella sua accezione di modello esemplare. Dunque sono stati portati due racconti, il primo quello di un ragazzino che aveva subito atti di bullismo a scuola e che grazie ad intervento della sua terapeuta in collaborazione con la famiglia era riuscito a risolvere o comunque a contenere la situazione; la seconda quella di un ragazzo che era stata adottato e che raccontava, anche attraverso un filmato, del suo viaggio di ritorno nel paese di origine assieme ai suoi genitori e aveva ripreso vari momenti, tra cui quello del suo incontro con la famiglia di origine o almeno una parte di essa e anche la visita all’istituto in cui era stato.
Questi in breve i fatti adesso vi dico che cosa non mi è piaciuto e perché, di come sono state raccontate queste storie di vita perché come sempre non è soltanto quello che accade ma anche come lo si racconta e perché questo ha molto a che fare con il tipo di narrazione che vogliamo portare avanti rispetto ad alcuni temi e ad alcune modalità.
Perché il tipo di narrazione che viene portato avanti delle persone che sono state adottate e la modalità in cui viene proposta la loro storia e fino anche la loro stessa presenza delle situazioni come per esempio quella a cui ho assistito
Ritengo fondamentale un punto e cioè che non si espongono ə bambinə, tanto più se in una condizione di fatica, in contesti non così protetti laddove protetti non significa solo avere una persona i propri genitori e/o una persona di riferimento accanto ma anche avere un platea che ascolta estranea ai fatti ed estranea anche a tutto il vissuto del bambinə e che anche inconsapevolmente non può essere pronta a raccogliere questa storia se non nell’ottica di prenderla come esempio, come racconto edificante con commozione finale.
Questo anche perché il ragazzino in questione si è trovato in evidente difficoltà nel momento in cui doveva raccontare un proprio vissuto faticoso e traumatico tant’è che è intervenuta la madre e poi essendo, comprensibilmente, in difficoltà anche lei è intervenuta anche la persona che li aveva seguiti in questo percorso. Quest’ ultima avrebbe dovuto tutelarli e non permettere che si trovassero che in un frangente così affaticante ma che invece, pur sperando e immaginando in buona fede, ha pensato che questo fosse un portare le storie con “la vera voce” delle persone coinvolte come un plus, un far empaticamente sentire il racconto ma che non ha tenuto assolutamente conto del fatto che queste stesse persone avevano bisogno di essere in realtà tutelate e non esposte in modo così poco rispettoso per loro e per la loro storia.
Teniamo sempre molto ben presente che le narrazioni anche quando sono fatte in prima persona sono sempre tali, ovvero esiste sempre un filtro o più e il filtro che questa volta è stato messo lo ha deciso qualcun altro rispetto aə protagonistə, con lo scopo più o meno consapevole però di dare una certa visione di quello che era accaduto che a mio avviso è stato l’intreccio tra una visione salvifica dell’ intervento dei servizi riguardo alla storia di questo bambino, la presa di coscienza, raccontata in modo molto didascalico, dello stesso e la conseguente vittimizzazione del protagonista, portato a raccontarsi solo in questa ottica di “salvato”, propedeutica alla giornata ma credo molto meno al suo percorso.
Questo stesso racconto, se ritenuto davvero importante poteva essere fatto in terza persona senza nomi senza volti senza far sì che il piccolo protagonista si trovasse appunto in una situazione così faticosa ed invece non se ne è tenuto conto, prediligendo la facile commozione di pancia a discapito di una accortezza in più che avrebbe perso fatto la differenza, in positivo.
Il secondo punto che non mi è piaciuto porta alla luce due punti, il primo riguarda l’ infantilizzazione delle persone che sono state adottate e il secondo la poca tutela delle loro storie così come quella di tuttə ə minorə, tanto più se sono percepiti come molto lontano da noi.
Quella che è stata presentata come seconda testimonianza consisteva nel racconto di un giovane uomo che era ritornato nel suo paese di origine e aveva anche conosciuto alcuni membri della sua famiglia di origine, di questo viaggio che aveva condotto assieme ai suoi genitori, aveva fatto un filmato che è stato proiettato in questa occasione; credo che da parte sua l’intenzione fosse di rendere partecipi del suo vissuto gli spettatori ma purtroppo in questo filmato comparivano anche molti bambini e bambine a volto scoperto, in una situazione ( anche) di fragilità, come può essere quella di vivere nell’istituto. Nessuno ha pensato di suggerire che dovesse essere mantenuta anche la loro privacy e dovessero essere tutelate le loro storie.
Inoltre, questo giovane uomo è stato chiamato a parlare dalla sua terapeuta che ha condotto l’incontro appellandolo appunto come “il mio bambino” e oltretutto nel corso del racconto da parte sua di quello che era stata la sua esperienza è stato più volte corretto dei termini che stava utilizzando, relegandolo al ruolo di bambino adottato che racconta quanto è stato fortunato, ovviamente con le parole giuste, suggerite con sollecitudine dalla sua onnipresente terapeuta.
Tutto questo riporta al tema centrale dell’ infantilizzazione delle persone che sono state adottate concependole sempre come figli e/o come vittime da tutelare e dà proteggere e a cui però proporre e far dire e la narrazione che si decide di far trasparire attraverso di loro e attraverso il loro vissuto.
Lo avete capito non mi è piaciuto affatto quello che ho visto e ascoltato e non mi è piaciuto tanto più perché a proporlo erano degli esponenti dei servizi, quelle persone che si presuppone dovrebbero essere i primi a portare avanti e promuovere una lettura dell’adozione con le sue varie tematiche e sfaccettature in una modalità che tenga conto dell’individualità di ognuno, dei vissuti e che ne abbia cura e li tuteli anche nelle narrazioni che se ne fanno ed invece è stato una spettacolarizzazione ed un utilizzo delle storie per esaltare la visione positiva che si voleva proporre in occasione di un’inaugurazione ufficiale, sminuendo e semplificando temi che invece proprio nella complessità possono trovare comprensione e riflessioni più profonde e più utili.
Disclaimer. So bene che esistono moltə operatorə dei servizi che svolgono con cura e attenzione il loro lavoro, questo vuole essere non accusa ma uno spunto per riflettere su alcuni temi che non sempre vengono tenuti in considerazione.