Trentasette anni fa atterravo in una nuova parte della mia vita, non sapevo ancora che sarebbe stata una tra tante ma certo una di quelle determinanti.
Da sempre in questo giorno vivo di ambiguità, solo da adulta mi permetto di viverle, facendo spazio ad emozioni aguzze e sentimenti contrastanti che adesso accolgo con tenerezza , in ascolto. Li tengo stretti insieme alla serenità di adesso, sapendo che non è scontata e conoscendo ogni passo servito per conquistarla.
È un gioco di equilibrio riuscire a fare spazio per quello che è senza rinnegare niente di quel che è stato e pensandomi anche altre vite possibili, non come esercizio di fantasia ma per curare strappi che non hanno risposte sicure e ammettendo a me stessa che avrebbero potuto avere felicità differenti ma che, semplicemente, non sono state.
Felice e instabile allo stesso tempo a sostenere il mio sguardo allo specchio in cui da sempre cerco anche lei, e sapere che in qualche modo mi è dentro anche quando non la so e che forse la imparo anche solo riuscendo a vedermi, un pezzetto di più, ogni volta che ne ho il coraggio.
Buon non – compleanno a me, che tengo insieme chi c’è e chi c’è stato, buon non – compleanno a me che mi tengo forte per stare sul filo, sicura abbastanza da poter ondeggiare, per non aver paura di cercarmi ancora.
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Adottato/AdottivoSentirsi, essere, definirsi
Da tanto, intorno a questo aggettivo si muovono discussioni e riflessioni perché come per ogni cosa che tocca profondamente più parti vi sono molteplici aspetti da tenere presenti.
Questa è quindi solo un aggiunta ad una riflessione più ampia che si sviluppa da tempo, un modo per fare il punto prima di tutto per me e che magari può essere utile anche ad altrə e perciò la condivido.
Il focus intorno a cui si dibatte è l’opportunità di utilizzare l’ aggettivo “adottato/adottivo” per definire persone con background adottivo o i loro genitori.
Come spesso accade credo che molto, se non tutto, dipenda dal contesto in cui il termine viene utilizzato che ne determina anche la valenza e per questo ritengo che ci siano due modalità in cui possa essere effettivamente utile o giustificato l’utilizzo del termine: quando l’attenzione è rivolta alla questione adottiva con le sue specificità, per cui parlare di gentori adottivi o di figliə che sono statə adottatə è propedeutico alla riflessione; quando sono le persone stesse ad autodefinirsi, perché piaccia o no l’autodefinizione è uno degli aspetti strettamente personali, che contribuiscono alla costruzione identitaria e che seppure parziali meritano una sosta in quel che raccontano. Tenendo poi presente che le definizioni e le autodefinizioni ancora di più sono in continuo movimento e non statiche, seguendo i percorsi di consapevolezza che ognunə intraprende .
Ritengo invece fuorviante ed errato utilizzare l’aggettivo adottivo/adottato negli altri casi, quando diviene lo strumento per sancire graduatorie di merito filiale o di valore genitoriale, per distinguere tra un presunto superiore legame biologico e quello creato attraverso l’adozione e identifica motivazioni per le quali differenziare in base a questo parametro atteggiamenti di vario genere.
D’altro canto ritengo rischiosa, seppur in altro modo, anche la negazione dell’utilizzo del termine a priori, laddove mi pare servile ad un appiattimento tanto rassicurante quanto fuorviante, e che vedo agire spesso nello stesso mondo adottivo, e temo sottenda il desiderio di valorizzare la genitorialità adottiva, ma avendo un effetto opposto a questo.
Tenendo come punto fermo che da un punto di vista affettivo ed emotivo non credo ci siano differenze tra le famiglie divenute tali tramite adozione e le altre (salvo quelle differenze ovvie e che,fortunatamente, rendono unica ogni famiglia)ritengo che sia invece saggio saper guardare alle differenze oggettive che possono esserci, senza che questo aggiunga o tolga valore a nessuna genitorialità ma semplicemente ne riconosca le peculiarità. Sostenere che non vi sia alcuna differenza tra famiglie ( adottive e non) trovo possa rappresentare un rischio laddove porta come conseguenza una pericolosa miopia rispetto alle specificità che invece necessitano di essere riconosciute ed individuate, avendo peraltro come conseguenza positiva il poter distinguere tra ciò che può essere ricondotto e affrontato come dinamica familiare a prescindere dalle tematiche adottive e per cui vi saranno metodi e strategie altre da poter attivare e quello che invece è attinente all’adozione e necessità quindi uno sguardo attento e esperto di determinati meccanismi.
Che l’amore non basta è ormai una certezza, trovare come affiancarlo e sostenerlo è un impegno e una sfida tanto appassionante quanto impellente per tantə e lavorare in sinergia l’unico modo che credo davvero efficace per trovare domande sempre più mirate e risposte sempre più articolate.
In un panorama che deve essere pieno di quesiti e poco adagiato sulle certezze ho però una sicurezza: un pensiero complesso e trasversale sia uno strumento prezioso e da allenare costantemente, fuggendo dall’ appiattimento rassicurante ma semplicistico che troppo spesso viene attuato e auspicato.
Di lavoro ne vedo ancora tanto ma ho anche moltə compagnə di strada con cui farlo.
Ci riusciremo?
#adozioneraccontata #narrazioniadottive #adozione #leparoleperdirlo
Privilegio.
Oggi mi sono scontrata con il privilegio in modo inaspettato e che mi ha colpita forte, come uno schiaffo.
Oggi mi sono scontrata con il privilegio.
Il mio.
Per questioni personali stavo parlando con una persona e mi sono resa conto di vivere un privilegio di cui si, ero teoricamente consapevole, ma che non avevo mai visto in modo così chiaro.
Non importa di quale privilegio si tratti, quello contro cui ho sbattuto è stata la difficoltà che talvolta si ha nel riconoscere i propri privilegi nelle pieghe della vita che ci è sempre sembrata normale, e a cui quindi non abbiamo pensato.
Me ne sono accorta e all’inizio ho provato un moto di imbarazzo misto a senso di colpa (quello sempre, non me lo lascio scappare), a cui è seguito l’ impulso da “aggiustatrice”, una sorta di deus ex machina senza effetti speciali ma con la stessa spinta risolutrice.
Ho respirato e mi sono morsa la lingua.
Ho ascoltato. Poi, e solo poi, davanti ad una richiesta ho risposto.
È stato un momento difficile e ringrazio di essermi i trovata, di aver fatto fatica.
Perché molto spesso sono chi fa notare i privilegi altrui, chi prova a riconoscerli e scardinarli e pur riconoscendo i miei più immediati e visibili credo sia molto utile trovarsi dall’altra parte almeno per tre buoni motivi.
Primo, per trovarsi nei panni di chi, in buona fede, non conosce i propri privilegi ma è (più o meno) pronto a mettersi in discussione;
secondo, per ricordarmi sempre che si possono avere privilegi e allo stesso tempo non averne altri, perché siamo esseri complessi, articolati e imperfetti. Per fortuna.
Terzo, per ricordarmi che avere privilegi ( ne abbiamo quasi tuttə) non è di per sé una colpa ma evitare di guardarsi per paura di doverne ammettere, ormai non credo sia più accettabile.
Oggi sono cresciuta ancora un pochino.
#privilegio
#leparoleperdirlo
Che cosa ho visto e perché mi sono arrabbiata.
A inizio estate ho partecipato alla presentazione di un nuovo spazio in città, spazio dedicato alle famiglie e a tutte le tematiche che ci ruotano intorno, tra le tante presenti anche adozione e affido oltre a bullismo, razzismo e discriminazioni varie.
La prima cosa che saltava agli occhi è stata la modalità con cui sono state presentate le storie che venivano portate al pubblico, anzi prima ancora, la scelta di portare in un’occasione così formale delle storie sicuramente molto emozionanti e potenti ad un pubblico variegato e quindi anche probabilmente, seppur volenteroso, non sempre pronto ad accogliere con la modalità migliore questi racconti.
Infatti sono stati proposti due racconti di vita chiamati ovviamente “testimonianze” con tutto ciò che, come spesso ho scritto, questo termine si porta dietro e che in questo caso era effettivamente voluto e preciso nella sua accezione di modello esemplare. Dunque sono stati portati due racconti, il primo quello di un ragazzino che aveva subito atti di bullismo a scuola e che grazie ad intervento della sua terapeuta in collaborazione con la famiglia era riuscito a risolvere o comunque a contenere la situazione; la seconda quella di un ragazzo che era stata adottato e che raccontava, anche attraverso un filmato, del suo viaggio di ritorno nel paese di origine assieme ai suoi genitori e aveva ripreso vari momenti, tra cui quello del suo incontro con la famiglia di origine o almeno una parte di essa e anche la visita all’istituto in cui era stato.
Questi in breve i fatti adesso vi dico che cosa non mi è piaciuto e perché, di come sono state raccontate queste storie di vita perché come sempre non è soltanto quello che accade ma anche come lo si racconta e perché questo ha molto a che fare con il tipo di narrazione che vogliamo portare avanti rispetto ad alcuni temi e ad alcune modalità.
Perché il tipo di narrazione che viene portato avanti delle persone che sono state adottate e la modalità in cui viene proposta la loro storia e fino anche la loro stessa presenza delle situazioni come per esempio quella a cui ho assistito
Ritengo fondamentale un punto e cioè che non si espongono ə bambinə, tanto più se in una condizione di fatica, in contesti non così protetti laddove protetti non significa solo avere una persona i propri genitori e/o una persona di riferimento accanto ma anche avere un platea che ascolta estranea ai fatti ed estranea anche a tutto il vissuto del bambinə e che anche inconsapevolmente non può essere pronta a raccogliere questa storia se non nell’ottica di prenderla come esempio, come racconto edificante con commozione finale.
Questo anche perché il ragazzino in questione si è trovato in evidente difficoltà nel momento in cui doveva raccontare un proprio vissuto faticoso e traumatico tant’è che è intervenuta la madre e poi essendo, comprensibilmente, in difficoltà anche lei è intervenuta anche la persona che li aveva seguiti in questo percorso. Quest’ ultima avrebbe dovuto tutelarli e non permettere che si trovassero che in un frangente così affaticante ma che invece, pur sperando e immaginando in buona fede, ha pensato che questo fosse un portare le storie con “la vera voce” delle persone coinvolte come un plus, un far empaticamente sentire il racconto ma che non ha tenuto assolutamente conto del fatto che queste stesse persone avevano bisogno di essere in realtà tutelate e non esposte in modo così poco rispettoso per loro e per la loro storia.
Teniamo sempre molto ben presente che le narrazioni anche quando sono fatte in prima persona sono sempre tali, ovvero esiste sempre un filtro o più e il filtro che questa volta è stato messo lo ha deciso qualcun altro rispetto aə protagonistə, con lo scopo più o meno consapevole però di dare una certa visione di quello che era accaduto che a mio avviso è stato l’intreccio tra una visione salvifica dell’ intervento dei servizi riguardo alla storia di questo bambino, la presa di coscienza, raccontata in modo molto didascalico, dello stesso e la conseguente vittimizzazione del protagonista, portato a raccontarsi solo in questa ottica di “salvato”, propedeutica alla giornata ma credo molto meno al suo percorso.
Questo stesso racconto, se ritenuto davvero importante poteva essere fatto in terza persona senza nomi senza volti senza far sì che il piccolo protagonista si trovasse appunto in una situazione così faticosa ed invece non se ne è tenuto conto, prediligendo la facile commozione di pancia a discapito di una accortezza in più che avrebbe perso fatto la differenza, in positivo.
Il secondo punto che non mi è piaciuto porta alla luce due punti, il primo riguarda l’ infantilizzazione delle persone che sono state adottate e il secondo la poca tutela delle loro storie così come quella di tuttə ə minorə, tanto più se sono percepiti come molto lontano da noi.
Quella che è stata presentata come seconda testimonianza consisteva nel racconto di un giovane uomo che era ritornato nel suo paese di origine e aveva anche conosciuto alcuni membri della sua famiglia di origine, di questo viaggio che aveva condotto assieme ai suoi genitori, aveva fatto un filmato che è stato proiettato in questa occasione; credo che da parte sua l’intenzione fosse di rendere partecipi del suo vissuto gli spettatori ma purtroppo in questo filmato comparivano anche molti bambini e bambine a volto scoperto, in una situazione ( anche) di fragilità, come può essere quella di vivere nell’istituto. Nessuno ha pensato di suggerire che dovesse essere mantenuta anche la loro privacy e dovessero essere tutelate le loro storie.
Inoltre, questo giovane uomo è stato chiamato a parlare dalla sua terapeuta che ha condotto l’incontro appellandolo appunto come “il mio bambino” e oltretutto nel corso del racconto da parte sua di quello che era stata la sua esperienza è stato più volte corretto dei termini che stava utilizzando, relegandolo al ruolo di bambino adottato che racconta quanto è stato fortunato, ovviamente con le parole giuste, suggerite con sollecitudine dalla sua onnipresente terapeuta.
Tutto questo riporta al tema centrale dell’ infantilizzazione delle persone che sono state adottate concependole sempre come figli e/o come vittime da tutelare e dà proteggere e a cui però proporre e far dire e la narrazione che si decide di far trasparire attraverso di loro e attraverso il loro vissuto.
Lo avete capito non mi è piaciuto affatto quello che ho visto e ascoltato e non mi è piaciuto tanto più perché a proporlo erano degli esponenti dei servizi, quelle persone che si presuppone dovrebbero essere i primi a portare avanti e promuovere una lettura dell’adozione con le sue varie tematiche e sfaccettature in una modalità che tenga conto dell’individualità di ognuno, dei vissuti e che ne abbia cura e li tuteli anche nelle narrazioni che se ne fanno ed invece è stato una spettacolarizzazione ed un utilizzo delle storie per esaltare la visione positiva che si voleva proporre in occasione di un’inaugurazione ufficiale, sminuendo e semplificando temi che invece proprio nella complessità possono trovare comprensione e riflessioni più profonde e più utili.
Disclaimer. So bene che esistono moltə operatorə dei servizi che svolgono con cura e attenzione il loro lavoro, questo vuole essere non accusa ma uno spunto per riflettere su alcuni temi che non sempre vengono tenuti in considerazione.
Tredici anni da quel si
Tredici anni che siamo bravi a tenerci stretti momenti tutti nostri.
Prima erano le maratone di serie tv o i 31 dicembre passati al cinema e a brindare in qualche posticino solo noi due.
Ora sono le mezz’orette ritagliate qua e là, un caffè mentre i bimbi giocano, le chiacchiere sottovoce mentre dormono e sempre qualche serie tv, che però non è più una puntata dopo l’altra ma una puntata in tre sere perché, puntualmente, uno dei due crolla.
Tredici anni che senza neanche sognarlo ci siamo regalati una festa che ci somigliava, piena di musica e persone importanti per noi.
Perché ci piace così, fare cose belle insieme, con molto impegno ma senza aspettative.
Che poi forse è come funziona l’amore, impegnarsi sempre, non dare per scontato e lasciarsi stupire ogni volta da chi abbiamo accanto.
Tredici anni da un sì sulle parole di Gibran, arrivando insieme mano nella mano.
E a quel sì giovincello adesso credo ancora più di allora.
Buon anniversario a noi, amore.
Settembre: nuovi inizi.
Settembre anche per me è il vero nuovo anno che inizia, in barba ai veglioni di Capodanno, è ora che faccio liste, progetti e provo a tirare fuori qualche sogno dal cassetto.
Settembre è qualche giorno ancora di vacanza, a salutare montagne e cognate-zie-sorelle.
È la scuola del Meraviglio che ricomincia e la nuova avventura del nido per il Piccolissimo.
È il mese in cui ritorna il ritmo d’autunno, la mia stagione del cuore, piena di nuovi inizi è di incontri ritrovati.
Settembre è la tazza dei nuovi inizi, quella che mi regalarono per la mia vita in una nuova città, scappando da un dolore cupo e dalle certezze di casa.
Settembre è appena iniziato, col suo bagaglio di entusiasmo misto a timore, quello che accompagna i cambiamenti e fa sentire le farfalle nello stomaco.
Lo aspettavo e non sono pronta.
Io provo a far svolazzare le farfalle nello stomaco senza spaventarmi, lasciare andare quello che non serve più e tenere forte il resto.
Che questo nuovo tempo abbia inizio.
Esperimenti bimbeschi.
In questi giorni il Meraviglio è dai nonni, e si sta divertendo tanto. Lo sentiamo mattina e sera e la misura della felicità è che ci liquida in fretta e ha sempre tante cose da raccontare.
Il Piccolissimo si gode questi giorni da figlio unico, che per lui è una condizione rara.
Mi piace che entrambi possano sperimentare modi nuovi di stare in relazione. Con Lui grande spesso ci ritagliamo momenti esclusivi con il Meraviglio, e adesso anche col Piccolissimo.
Da piccola, in famiglia, si stava sempre tutti insieme, erano davvero rari i momenti dedicati, e solo dovuti a organizzazione familiare. Le cose piacevoli, i momenti liberi erano tutti insieme. Che è stato bello, assolutamente, ma da grande mi sono accorta che mi era mancato coltivare una relazione singola coi miei genitori, al di là delle telefonate.
Ogni famiglia ha e trova i suoi equilibri, per noi è importante che ognuno riesca ad avere qualche momento da trascorrere in esclusiva con un altro, e poi il tempo trascorso tutti insieme (la maggioranza) è ancora più ricco e più “scelto”.
Io amo il tempo con ognuno di loro, conoscere le sfumature e i pensieri che regalano solo in un discorso a due . Così come amo sapere che con il loro papà hanno un ritmo tutto loro, che io posso immaginare ma non conoscere se non dai loro racconti.
Credo sia anche per questo che quando parto (o almeno quando lo facevo ) sono tranquilla. Mi mancano, certo, ma non mi preoccupo mai. Sono con la persona che, insieme a me, li ama e li conosce meglio (per ora).
Per le madri sembra sia difficile pensare che i propri figli possano stare benissimo, felici e sereni, anche in loro assenza, e forse serve allenarsi, fin da subito, a combattere il brivido dell’indispensabilitá, dell’ essere le uniche e le sole a poter accudire i propri bambini nel modo migliore.
E invece di modi ce ne sono tanti, così come di felicità, diverse e uniche, a seconda di chi le costruisce e tutte servono a creare quell’abbraccio sicuro da cui partire e a cui tornare, solo per partire più di prima.
Questo vorrei riuscire a fare per i miei bimbi, e mi alleno ogni giorno per riuscirci almeno un poco
Post scombinato.
Ieri c’era questo cielo, azzurro e con le nuvolette come nei cartoni di quando ero piccola, in cui mangiavano fette di pane e il formaggio che si scioglieva che mi sembrava dovessero essere buonissime, e guardavano tutti con il naso all’insù su questi cielo bellissimi.
E pensavo a loro, in Afghanistan, come le raccontiamo, che parole scegliamo per narrarne le storie, se abbiamo rispetto di racconti che non ci appartengono e a cui dobbiamo cura e attenzione, e se si riconoscerebbero nelle parole che spendiamo per loro o se piuttosto preferirebbero ascoltassimo e basta, col rischio però di far passare troppo sotto silenzio.
Non ho le risposte, e non so cosa e come fare al meglio, ma come sempre almeno porsi le domande mi pare importante.
Mi sto chiedendo anche che parole usare per raccontare al meraviglio cosa sta accadendo e come poter rispondere se mi farà domande.
Intanto leggo, cerco e provo a mettere in ordine le idee.
Lo so, è un post scombinato, iniziato in un modo e finito altrove, d’altronde così è adesso per me, pensieri pesanti che vagano sulle notizie e la normalità della mia vita fortunata che entra, prepotente, con il rumore dell’estate e i panni stesi sui fili del balcone.
Nomi storpiati.
Stamattina in un’ora appena due persone mi hanno chiamata “David” “Devin” e “Devil”.
Io come spesso faccio per semplificare (illusa ) dico ” si scrive come l’imperativo del verbo dovere, così, come si pronuncia , Devi.”
Sguardi basiti … Forse non li ho aiutati.
Al di là di me, e del fatto che mi fa sorridere (in modo sarcastico ma sempre sorriso è) una cosa del genere, penso a chi invece in un momento di fragilità, o anche solo di stanchezza per non vedere riconosciuto il suo nome, può venire colpito non tanto dall’ignoranza, che si può (in alcuni casi) perdonare, ma dal perseverare.
E il sorriso diventa un po’ amaro.
Un anno di Piccolissimo.
Ed eccoci qui, mio caro, caro bambino, un anno dopo e cammini spedito, ridi e guardi il mondo con un’ espressione buffa da vecchio saggio divertito e un po’ sbruffone.
È stato un anno lunghissimo, di cui abbiamo vissuto insieme praticamente ogni attimo, imparando a conoscerci e scoprendoci fuori da me.
È stato un anno corso via in un lampo, un condensato di emozioni che travolgono e lasciano stupiti appena passate.
Come per il Meraviglio, non sembra possibile che prima tu non fossi qui con noi.
Ti guardo avventurarti nel mondo, in equilibrio tra coccole e salti in avanti, con gli occhi che brillano quando guardi tuo fratello e ti apri in un sorriso innamorato.
E innamorare fai tutti, con occhioni spalancati e curiosi, che faricano così tanto (per ora? Speriamo!) ad abbandonarsi al sonno.
Lo capisco, per quanto io ne paghi le conseguenze in occhiaie perenni, anche per le lasciarmi addormentare è difficile tutt’ora, accettare di lasciar andare, almeno per qualche ora. Spero che ti diventerà più semplice e più in fretta.
Sei arrivato come un regalo e hai portato rivoluzione, e di questo allegro e tenero caos sono profondamente grata.
Buon primo compleanno piccolissimo,
goditi ogni istante che hai davanti e divertiti a camminarci dentro.
Io sarò sempre qui, abbastanza lontano da farti volare, abbastanza vicino per darti lo slancio.
Con amore,
Mamma