Qualche giorno fa mi è comparso uno spezzone di una serie TV , stava passando in sordina quando ho sentito il mio nome sullo schermo: una delle protagoniste, di origine indiana, si chiama come me.
Folgorazione.
Dopo almeno 30 anni ho sentito il mio nome in un’opera di intrattenimento mainstream occidentale. È stata una sensazione incredibile, fortissima pur nella consapevolezza adulta. Ma per quell’ attimo, il sorriso che mi ha disegnato in faccia era quello della me ragazzina e l’ho riconosciuto subito anche se era la prima volta che lo facevo, d’altronde era la prima volta che mi accadeva di sentire il mio nome in un contesto simile.
Quanto parla questo sorriso di una generazione per cui era normale non vedersi rappresentatə, per cui sembrava non fosse neanche un problema perché pensavamo non fosse pensabile e infatti siamo cresciutə con uno sguardo anche estetico tarato sulla bianchezza circostante.
Il punto non è solo che non avessimo (quasi) amicə di origini altre ma che sembrasse (quasi) normale.
Per quanto mi riguarda le amiche e gli amici di altra origine erano tuttə statə adottatə, il che è stato una salvezza per alcuni aspetti ma certo non mi ha messo in contatto con la possibilità di immaginarmi grande in altro modo che non fosse quello tutto bianco in cui non riconoscevo i miei tratti ma spesso il mio gusto si.
Questo essere ibrido mi rendeva informe ai miei stessi occhi e sono serviti molti incontri e molti, moltissimi libri, saggi certamente ma ancora di più letteratura per cercare di costruire un immaginario che non fosse troppo distante da me.
Perché certo, col tempo ci sono state le attrici di Bollywood e si, portavo capelli cortissimi come Arundhati Roy che scriveva di quella terra che non conoscevo affatto pur avendola, in qualche modo, dentro. Ma sono state ancora di più un amica che per studio e lavoro ha vissuto lì, e mi consigliava romanzi, e un’ altra che mi portava saree e the. Entrambe bianche, sono state i miei tramiti per costruire un identità ibrida in cui proprio il loro avere in comune con me un mondo culturale simile, oltre all’affetto, ha fatto in modo che anche attraverso il loro sguardo quell’India così distante per me si facesse più familiare.
È un processo che può apparire strano o contorto ma in realtà non è raro che gli avvicinamenti alla cultura del proprio paese di origine avvengano inzialmente anche per vie traverse, penso ad alcuni passaggi di “Couleur de peau : miel” di Jung e Boileau o anche al recente ritorno a Seul dove la prima tappa poi deviata era un oriente diverso ma non così lontano dalla Corea ( a cui comunque la protagonista arriva, chissà se così casualmente) così come altri esempi ancora.
È che cercare uno spazio che possa contenere tutto è un lavoro difficile, seppur affascinante ( ma questo forse più alla luce di un’adultità raggiunta), e segue percorsi personalissimi e diversificati, strade traverse e inedite. Trovare qualcunə che ti ascolti in questo cammino non è scontato, per quello che posso cerco di esserlo ogni volta che né ho l’occasione, avere cura di quello che ti viene consegnato e confidato è una delle azioni più preziose più delicate che conosca, ma questo è un’altro post che ho tra le dita e che arriverà.
Presa dal momento ho dimenticato di quale serie TV si trattasse, se qualcunə la intercettasse e volesse dirmelo sarei felice.
Credo sia Io non ho mai… la guarda mia figlia
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