Mi piace il mio nome, è breve e ha un bel suono, mi riconosco nella decisione della ” d” iniziale, che scivola nelle tre lettere seguenti, lasciando traccia ma divenendo più dolce all’orecchio. Mi ricordo bambina, fiera del mio nome straniero, unica porta su dei ricordi senza memoria, un legame con un’identità altra, specchio di qualcosa di indefinito e potente.
Quando seppi che l’aveva scelto mia madre, in India, l’ ho amato ancora di più; mi ci sono aggrappata con disperata forza, nell’ idea che potesse restituirmi un’appartenenza definita, e la dolcezza che fosse stato scelto, proprio per me, mi ha cullato in molte notti. Che non sia stato cambiato o accompagnato da altri nomi è un omaggio, fatto a chi mi ha dato la vita, anche se poi non mi ha accompagnato ad attraversarla. E questo piccolo nome, è come il simbolo di una staffetta, tra due vite, due modi di amare e la consapevolezza che ho in me lo spazio per entrambi; e la serenità che, questa assenza di radici (non affettive, ché quelle, preziose, le ho forti e sicure), di un riconoscersi nello sguardo sicuro di chi sa, di che terra è figlio, sia infine una forza, piuttosto che una mancanza.