C’ eri una volta,  in un paese torrido e sgargiante, bambino con gli occhi grandi, dentoni bianchi e tanti capelli, neri e indomabili. Dividevi la vita con mamma, papà, e qualche sorella, certa, solo una, più  piccola. Giorni identici, impastati di fatica e una ciotola di riso,  insieme, la sera. Ci saranno state risate, e giochi, e litigate, come in tutte le famiglie, e magari, qualche volta, guardando l’ orizzonte infuocato o tra le gocce di pioggia monsonica ti sarai chiesto, cosa e se, ci fosse un oltre da conoscere. Finché tua madre, quella donna forte, che ti incuteva una sorta di timore ammirato, la roccia della casa, se ne andò,  con le tue sorelle, tranne la piccola, che già  non c’era più. Spaesato e confuso, il dolore tagliente di essere stato abbandonato con un padre amato, ma debole ai tuoi occhi. E debole, lo era davvero, malato, non si sa quanto, ma abbastanza da non sentirsi in grado di crescerti, ti lasciò  alle porte di un istituto.  Non so quanto ci rimanesti, ma fu sufficiente a farti capire, che solo tu potevi badare a te stesso, e fece tua la consapevolezza appuntita, che non saresti più  stato bambino, spensierato, figlio.

A due oceani e un po’ di terra, c’ eravamo noi, con il cuore spezzato, e un dubbio persistente  su una nuova felicità.  “Mamma,  gli vorrò  bene a questo fratellino? Saprò farlo ancora?” Non ricordo la risposta, sarà  stata rassicurante, ma, in un cassetto della memoria, ho netta la sensazione da cui nasceva la domanda. Avevo amato profondamente il mio fratellino Dominic, uno scricciolo istrionico, con un sorriso travolgente e il cuore che non sapeva seguirne l’ entusiasmo, la sua morte aveva squarciato la serenità  che avevo ricostruito, un brutale risveglio dal sogno di aver lasciato il dolore nell’aeroporto, tra le braccia di mia madre e il sorriso emozionato di mio padre. Quando ci siamo incontrati, non eravamo l’ incastro che serviva; consapevolezza dolente, che mi è costata lacrime e uno sguardo implacabile su ciò  che è  stato, per sapere  vederci senza il filtro  dell’ amore che, innegabilmente  ci abbiamo messo tutti. Ma l’ amore non basta, e non è  bastato. Eravamo dolori e fatiche sotto l’ entusiasmo, e ci abbiamo creduto, noi almeno di certo, che si potesse colmare un vuoto senza prima attraversarlo ma riempiendolo di nuovo. Non per sostituire, questo non è  accaduto e non era nelle intenzioni, ma, ingenui di emozioni, ci siamo tuffati in alto mare senza saper nuotare e senza salvagente.  Eppure, siamo diventati famiglia, e per otto anni siamo cambiati, cresciuti, scontrati, quei dolori sommersi tornavano fuori a balzi, forse chiedevano attenzione ma non potevamo, troppa energia serviva per tenere insieme quattro felicità  da rimettere in piedi, cercando un accordo comune. Non saprò  mai se tu lo sentissi, e come, tutto questo amore, forse si, mi piace pensarlo, anche se non poteva essere sufficiente alle tue ferite.

C’ erano una volta, mostri e fantasmi  di un passato che, nei ricordi di adolescente impaurito, si tramutavano in realtà  idilliaca  e perduta o in buchi neri così  vicini da poterli toccare. E infatti, ti ci sei trovato sul ciglio, e guardandoci dentro, ne sei stato inghiottito, senza sperimentare che dai gorghi dell’ anima si può  uscire, con fatica e dolore ma rinascendo  consapevoli e grati di poter scegliere una felicità  luminosa. Ma sedici anni sono pochi, se il buco nero lo si porta dentro, per poter vedere oltre la tempesta.

Mancava un mese ai miei diciotto anni, quando una telefonata mi spezzò  la normalità. Il pozzo fu ancora più  profondo, vischioso e scuro, mi ritrovai ad annaspare sul fondo,  fino al punto in  cui seppi, che scavando oltre non si poteva tornare indietro. E risalii.

Ci sono io, adesso, che ho nuotato nel mio abisso, l’ ho guardato  e, riconoscendolo, gli ho fatto spazio. Non desidero più  cancellarlo, mi abiterà  sempre, ma si fa addolcire dalla felicità  che ho scelto per me. Ogni tanto deve uscire fuori, si prende qualche ora di malinconia, qualche lacrima, per sapere che non lo nego; poi lascia il passo a manine sporche, sorrisi grandi, e abbracci stretti dei due ometti, quando tutti insieme balliamo in cucina, e posso essere mamma e bimba, danzando sulla pioggia, perché  so, che dietro le nuvole, c’ è  sempre luce.

3 pensieri riguardo “C’ eri una volta…

  1. Devi, arrivo con molto ritardo a confrontarmi con quanto hai scritto e forse non è un caso. Prima di tutto un grazie per avere condiviso tanto. Tremende le perdite che ti hanno toccato, ma dono preziosissimo la chiave di lettura che hai saputo individuare: Il dolore va attraversato, prima che l’anima possa diventare veramente ricettiva dell’affetto che riceve e permettersi di rimetterlo in circolo…e forse, allora, tutto quello che é stato imprigionato può investire, contagiandolo, chi sta vicino.

    Piace a 1 persona

Lascia un commento