Mamma di pancia, mamma per scelta, genitori naturali, genitori adottivi, vite che si incrociano, loro malgrado, caparbie si uniscono in una sola persona: un figlio, che, col tempo, saprà forse accogliere in se ogni parte, riconoscendone i tratti, più che comprendendo col pensiero, sentendoli sul corpo e nell’anima. Perché, il corpo capisce, sente, ricorda, ha memoria di quello che la mente oblia, per salvarsi. Ritrovo in sogno uno sguardo di madre, nei miei occhi neonati, sento uno strappo del cuore, un vuoto intorno al corpo bambino. E poi la sensazione calda, di un luogo nuovo, diverso, che promette storie d’amore, per me, e braccia da avvolgermi attorno. Mi pare talvolta, o forse era così tempo fa, che, nel desiderio di amorevole certezza, si tema di non riconoscere una verità cristallina: adottare non è come avere una figlio di pancia. Non parlo del sentimento e dell’emozione, quello, ne son certa, è identico. Ma il percorso è diverso, e nel dirlo chiaramente non vi è alcuna scala di merito, diverso non significa migliore o peggiore, solo è un modo altro, di diventare famiglia. Sono rapporti da costruire, in cui è necessario tessere assieme la trama di una storia comune, privi dell’iniziale intimità, ma forti e belli di una scelta d’amore consapevole. Il corpo piano piano riconosce e si appropria dell’altro, la vicinanza va conquistata, ma regala somiglianze inattese. E allora “come se ti avessi fatto io”, si può sostituire ad un “perché ho scelto di averti” , e quanta dolcezza e pazienza in questa scelta, quanta bellezza in una scelta compiuta ogni giorno, sempre a ricordare che ci si appartiene, ci si adotta a vicenda, padri, madri e figli, ognuno con le sue ammaccature, che, insieme, regalano un quadro di imperfetto splendore.  Non ho i loro occhi ma ne ho imparato lo sguardo, e lo ritrovo appiccicato, sul volto di mio figlio.

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