Feriti e rotti, come pupazzi in mano d’altri, senza alcuna speranza se non la salvifica aspettativa di qualcuno che rimetta i cocci al proprio posto? O ancora, in attesa che i pezzi si rimettano a posto, con molta buona volontà, magari da soli, perché nessuno ci può comprendere.

Non credo. E non penso che possa identificare tutte le  persone adottate, ma neanche chi adottato non è ed è ferito in altri modi, senza scala di dolore che le ferite restano tali e non ha senso fare a gara a chi le ha più profonde.

Feriti e rotti, nella misura in cui, il dolore ti spezza la fiducia e arena i sogni, trasformandosi in cicatrici incise dentro e fuori, ma, non in senso deterministico. E non da soli.

Feriti perché le storie spezzate lasciano tracce, indelebili, che significa che faranno parte di noi, per sempre, ma non che determineranno le nostre vite, per sempre.

Viene chiamata “ferita dell’abbandono” ed è innegabile, che, declinata in modi diversi, sia presente nel vissuto delle persone adottate. Ma, la distinzione fondamentale sta nel ritenere che tale frattura determini a priori tutto ciò che verrà dopo. Non è detto, non sempre, e non allo stesso modo. E questo non perché alcune vite appaiono più risolte di altre, o perché invece si vedano lotte faticose senza apparente via di uscita.

Ammetto, il sentire parlare di “figli rotti dentro”, pur comprendendo il dolore che annida tra una lettera e l’altra, mi stride, per il movimento di responsabilità che (apparentemente?) viene riversato principalmente o unicamente sui portatori di queste ferite, come potessero essere solamente soli a fronteggiarle. Non ho soluzioni, e non credo di poter immaginare la fatica fisica ed emotiva che può portare vedere un figlio dimenarsi nelle difficoltà, perciò non mi spingo a giudicare. Ma non posso non chiedermi se, tra i modi di stare accanto a questi dolori, si pensi a quanto sia indispensabile un lavoro su se stessi, in quanto persone e genitori, in quanto componenti di quella famiglia che ha visto saltar le proprie dinamiche. Perché non accade dal niente, spesso è difficile, incredibilmente difficile carpirne i segnali, ma ci sono. E i meccanismi, possono essere lavorati da tutti, non solo dai “figli rotti”.

Temo non ci siano soluzioni o metodi che funzionino per tutti, a prescindere, e proprio oggi che avrebbe compiuto trentaquattro anni lui che non c’è da anni e non è stato più figlio, fratello, che non è diventato zio e mi ha lasciato senza qualcuno con cui condividere in quel modo unico e imperfetto l’essere grandi insieme che sa di famiglia e di vite condivise, ha un peso maggiore, l’assenza di risposte. Ma mi guardo indietro e dolorosamente mi accorgo che non si era visto niente, di qualcosa che però, era presente in modo prepotente.

Non è facile scriverlo e non avvalla in alcun modo l’idea che si sarebbe potuto cambiare il corso delle cose, ma, provando ad astrarre il personale, con fatica, non posso negare il chiedermi se qualcosa si potesse intuire, e chissà…

Rimane, a combattere il senso di impotenza, l’idea che il continuo mettersi in discussione, profondamente, costantemente, accettando di ridiscutere le proprie certezze infinite volte, capovolgendosi, sia l’unica strada, non per risolvere e aggiustare, ma per stare accanto, con la maggiore consapevolezza possibile.

Difficilissimo, ma, devo crederlo, possibile.

Un pensiero riguardo “Feriti e rotti.

  1. cara
    ti seguo da un poco. Sono mamma adottiva di due uomini ormai. E quello che dici è sacrosanto. Non soluzioni, non strade ma un continuo, implacabile, spietato e lucido lavorio su sè stessi. E la speranza, sempre e comunque.
    Ti abbraccio
    Lucia

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